Verso una nuova medicina. Più sana, sostenibile, saggia. Colloquio con il dottor Marco Del Prete
La medicina, così come è oggi, lascia molti di noi insoddisfatti o insofferenti. Terapie uguali per tutti, farmaci con effetti collaterali che ti costringono a prendere altri farmaci in una catena infinita. Malattie croniche che non si risolvono. Medici distratti. Viaggi della speranza tra specialisti, ognuno che parla la sua lingua. Ma le cose stanno cambiando. In questa intervista esclusiva le riflessioni di uno scienziato sulle nuove tendenze nella medicine integrata.
Un seme per il cambiamento
Una pietra miliare, o almeno un seme per il cambiamento, è stata posta lo scorso maggio al Simposio Medicina dei sistemi, modelli di integrazione nella prassi clinica e nuove soluzioni terapeutiche Un’occasione per fare incontrare la medicina accademica con il nuovo paradigma in una cornice prestigiosa come l’Università degli Studi di Milano, e con il supporto non condizionante di Guna Spa. Ne parliamo con Marco Del Prete, medico specialista in nefrologia e presidente dell’ International Academy of Physiological Regulating Medicine, tra gli organizzatori del Simposio. Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia
Medicina riduzionista e medicina olistica: due facce della stessa medaglia?
D. Il recente Simposio aveva come sottotitolo Un nuovo paradigma in medicina: dall’approccio riduzionistico a quello sistemico per porre al centro l’uomo nella sua complessità. In questa frase ci sono parole chiave di due mondi diversi. Da un lato l’approccio riduzionistico: in parole povere la Medicina che vede il corpo come una macchina, con i suoi pezzi di ricambio, e la malattia da curare con protocolli “one size fits all”, uguali per tutti. Dall’altro l’approccio sistemico, tipico della Medicina olistica, che vede il malato come un’unità di mente, corpo e spirito, e terapie da adattare all’individuo che è al centro di tutto. Sembrano due realtà inconciliabili.
R. Io penso invece che si tratti di due facce della stessa medaglia. Nella pratica clinica, quando ti si presenta un paziente, devi poter scegliere quale sia l’atteggiamento migliore. Ci sono situazioni in cui l’emergenza richiede un approccio diretto, riduzionista. Arriva una persona che lamenta un dolore improvviso, con un rialzo di pressione preoccupante. Lì il medico non può fermarsi a pensare troppo, ha bisogno di interventi diretti, condivisi da protocolli. Altre volte però queste manifestazioni di disagio sono la spia di un problema cronico ricorrente o in evoluzione. Sono i casi in cui facciamo i conti con malattie croniche o degenerative. Sono situazioni complesse e noi medici siamo chiamati a capire cosa c’è sotto. La personalizzazione, dunque l’approccio sistemico, diventa allora una soluzione necessaria.
Scegliere cosa è meglio per il paziente. Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia
D. Ci può fare un esempio?
R. Certo, le parlo della mia esperienza di nefrologo. Oggi, quando vedo un paziente nefrologico non posso più limitarmi a considerare il funzionamento dei suoi reni. Devo necessariamente interessarmi, per esempio, del suo assetto intestinale, perché sappiamo che questo influisce sull’emodinamica renale e il controllo pressorio. In un certo senso sconfino dalla mia specialità, ma è indispensabile per inquadrare il problema e personalizzare la terapia. Anche lavorando in team va superato il concetto dello specialismo. E’ giunto il momento di pensare alla medicina come un open space dove è possibile avere occasioni di scambio anche concettuale, tutti alla pari. Faccio l’esempio dell’infiammazione, una specie di minimo comun denominatore di molte patologie. Oggi quello dell’infiammazione è considerato un terreno ampiamente condiviso, rispetto al quale specialisti diversi, dal loro punto di osservazione, devono necessariamente confrontarsi.
Protocolli one-size-fits-all o medicina personalizzata?
D. Lei fa parte di quei medici che hanno molto riflettuto e aperto i propri orizzonti, modificando, nel tempo, anche il proprio approccio al paziente. E’ diventato omeopata e omotossicologo, ora utilizza la promettente Low Dose Medicine di cui tra poco parleremo. Insomma, grazie alla sua esperienza è oggi un medico aperto a tutte le possibilità di Medicina convenzionale e complementare. Però vedo difficile un medico abituato ai protocolli aprirsi a questo tipo di ragionamento.
R. Forse la stupirò ma io sono molto ottimista. La mia impressione è che la condivisione sia un traguardo ineludibile. Da questo punto di vista il Simposio è stato molto interessante. Medici che arrivavano da esperienze diverse molto specialistiche si sono affacciati al confronto e alla complessità. I protocolli fanno parte di un sistema difensivistico, nel senso che il medico si sente protetto da gesti condivisi e linee guida. Ma questo atteggiamento non sta funzionando nemmeno con i pazienti, che sono estremamente disorientati. Arrivano e dicono: <Lei mi ha prescritto il calcio per l’osteoporosi ma il mio medico ha detto che devo ridurre i cibi ricchi di colesterolo e calcio. Ma perché non vi mettete d’accordo?> Con contraddizioni del genere ci scontriamo tutti i giorni, di conseguenza credo che il cambiamento sia una necessità. E penso che prima o poi anche i medici più “resistenti” si affacceranno a questo diverso approccio. Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia
La medicina che mette l’uomo al centro: il nuovo traguardo
D. L’altro concetto chiave, che chiude un po’ il cerchio, è “porre al centro l’uomo nella sua complessità”. Parliamo allora di personalizzazione. Oggi si punta molto a individuare terapie “sartoriali”, tagliate sul singolo individuo perché si è visto che funzionano meglio. Però come arriviamo a queste terapie?
R. La diagnostica è fondamentale. Oggi il progresso nella diagnostica è così avanzato che ci obbligherà ad assumere atteggiamenti diversi. Si è parlato al Simposio di scienze omiche, sembrano concetti astrusi ma al contrario hanno risvolti molto pratici. Grazie alla metabolomica, per esempio (lo studio sistematico delle impronte chimiche lasciate da processi metabolici), sappiamo che la nostra urina contiene almeno 150 mila metaboliti diversi. Ma ne bastano tre che, formando un particolare pattern, decretano il fatto che una persona sia molto esposta al rischio di sviluppare diabete. E’ come un’impronta digitale. A quel punto devo prendere dei provvedimenti. Come paziente ho una consapevolezza che riguarda la mia persona, non una media statistica. E io, come medico, devo scegliere una strategia previsionale rispetto a questo rischio.
Se i “big data” controllano tutto. Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia
D. Una diagnostica così sofisticata, gestita magari dall’intelligenza artificiale, non potrebbe essere troppo deterministica? Per dire, se ai normali esami di laboratorio risulta un colesterolo alto mi metto a dieta, come molte altre persone nelle mie condizioni. Ma un dato così preciso e personale, certificato da una macchina, non sarebbe una specie di verdetto?
R. Be’, intanto i dati vanno elaborati, poi messi nelle mani del medico che dovrà necessariamente filtrarli in base alla realtà del paziente. Sarà uno strumento in più che adesso potrà sembrare poco naturale ma che andrà calibrato in rapporto al paziente. Ricordiamo poi che, se il nostro quadro di riferimento è la scienza dei sistemi, dovremo rapportarci con quel determinato paziente nella sua complessità. Non sarebbe sufficiente se io al mio paziente regalassi solo la predizione di un rischio, in questo modo gli offrirei anche una nuova occasione di ansia. Il problema è che è cambiata la filosofia a monte. Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia
Luci e ombre della salute digitale, o e-health
D. Ancora una domanda su questo tema. Ci stiamo avviando rapidamente all’era dell’e-health, cioè della salute digitale. Molta tecnologia, ingenti investimenti da parte delle case farmaceutiche, ma forse poca etica. Il paziente allora non rischia di diventare un numero in mezzo a tante statistiche? Di essere “usato” da questi sistemi artificiali e perdere il controllo della propria salute? Tanto più se a gestire i “big data” sono le grandi aziende del settore…
R. Sono domande importanti e molto opportune. E dobbiamo tenere gli occhi aperti, per evitare che si faccia un uso improprio delle nuove tecnologie. Però, mi creda, non è così semplice. Pensiamo al progetto genoma, uno dei più grandi traguardi scientifici degli ultimi tempi. Se ci ha insegnato qualcosa è proprio che avere una tastiera non equivale a suonare la musica. Per capire la musica dobbiamo entrare nella trama complessa tra mente e corpo, quella che viene analizzata dalla P.N.E.I. (psiconeuroendocrinoimmunologia, la Disciplina che studia le relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici) dalla Medicina dei Sistemi. Tutte queste medicine pensano che qualsiasi patologia e rischio oggettivabile non possano prescindere dalla realtà del paziente. E con il paziente va costruito un rapporto più interattivo e non solo statistico. Bisogna lavorarci, e tutti dobbiamo imparare a farlo.
L’importanza della comunicazione medico paziente. Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia
D. A proposito del rapporto medico paziente, lei ha sottolineato l’importanza della narrazione, della comunicazione.
R. Certamente. Con il paziente va creata una relazione di collaborazione, di scambio di opinioni. La conoscenza non è solo raccolta dell’anamnesi ma lasciare che il paziente racconti la sua storia. I curandero messicani non cercano la cura ma il motivo della malattia, che già di per sé è una cura: nel modo di comunicare c’è già una presa di coscienza, e questa è terapeutica. Fondamentale è anche il rapporto diretto. Vede, durante la pandemia è stato necessario vedersi in telemedicina ma non è che io ne fossi tanto felice. C’è bisogno di un rapporto diretto, dell’odore, della postura, della gestualità. Nello schermo non vediamo la persona vera ma una specie di fantasma. Poi, devo dire che io sono un sostenitore dell’esame obiettivo. Anche quando avremo dati sofisticati, una palpazione del fegato è importante quanto un’ecografia o un fibroscan… Verso una nuova medicina, più sana, sostenibile, saggia.
Low Dose Medicine, il futuro è già qui
D. Parliamo di Low Dose Medicine, o Medicina dei Bassi Dosaggi. Un campo di ricerca innovativo che ha portato in farmacia una classe di medicinali formulati con basse dosi fisiologiche di molecole biologiche, come citochine, interferone e molte altre. Queste molecole hanno a che fare con il nostro sistema immunitario. Ci può spiegare in che modo?
R. Abbiamo capito che, per riuscire a interpretare la complessità dei sistemi biologici, e del sistema immunitario in particolare, dobbiamo studiarne il linguaggio. E’ la comunicazione che rende più accessibile una galassia sterminata qual è l’insieme corpo-mente di una persona. Possiamo pensare alle molecole biologiche come se fossero parole. L’idea è quella di usarle per riprogrammare quei sistemi che hanno un po’ smarrito la via. Ora, ci si è accorti che il sistema biologico incredibilmente è un omeopata, parla a diluizioni di nanogrammi, picogrammi, femtogrammi. Non grida ma sussurra. Alcuni studi hanno dimostrato che le LD (low dose) stimolano certi processi biologici.
Sono ricerche di straordinario interesse. E’ nata così una farmacologia di regolazione che utilizza “parole” per riprogrammare i sistemi che si sono smarriti. Scendendo nella pratica clinica e a proposito di sistema immunitario, si è visto che queste terapie funzionano molto bene per malattie autoimmuni, infiammazioni, allergie. Qui, poi, possiamo inserire farmaci composti della tradizione omotossicologica che sono adatti a interfacciarsi con una realtà complessa e funzionano anche loro molto bene.
Medicina sana, sostenibile, saggia. Ma è realizzabile oggi?
D. La nuova Medicina dunque è più sana, perché non interferisce con i meccanismi biologici del corpo. E’ sostenibile perché usa farmaci molto diluiti, che non creano effetti avversi. E’ saggia perché coinvolge il paziente. Ma l’esperienza recente della pandemia ci ha dimostrato che siamo ancora lontani da questo modello. Infatti si sono dati a tutti indifferentemente le stesse sostanze, senza alcun riguardo per l’individuo, o le sue specificità che potevano predisporlo a eventi avversi.
R. E’ vero, ma le dirò: io non mi stupisco che il nuovo paradigma di cui abbiamo appena parlato nasca proprio adesso che siamo immersi esattamente nel suo opposto. Perché a tutti noi manca l’aria. E’ quando manca l’aria che devi aprire le finestre. I medici come me che si occupano da tanti anni di Medicina olistica trovano tutto questo normale, ma personalmente mi è parso speciale sentire al Simposio dei direttori di cattedra che si esprimevano in maniera ben precisa, portando ricerche che convalidavano il nostro approccio, e firmavano poi una dichiarazione di intenti.
Il tempo del cambiamento e il simbolo del Tao
Mi sono detto, vuoi vedere che siamo arrivati al limite? E non è una scelta di alcuni ma una direzione che la realtà sta prendendo, perché così non possiamo più andare avanti. Mi viene in mente il simbolo orientale del Tao, che è poi il simbolo del cambiamento. Nella metà bianca c’è un puntino nero e viceversa. Significa che in ogni situazione è già presente il suo opposto, pronto a occupare tutta la metà, in un continuo cambiamento.
In natura lo vediamo quando a fine estate trovi già la presenza dell’autunno, con le prime foglie che cadono. In Biologia nel fenomeno dell’infiammazione: nel processo che la crea ci sono già molecole che servono per la sua risoluzione. E’ l’intelligenza della natura e, con la nostra medicina dei sistemi, stiamo cercando di imitarla. O perlomeno di andarci vicino.
Nautilus: perchè ho scelto questa conchiglia per illustrare la nuova medicina
Il Nautilus è una conchiglia di straordinaria bellezza. La perfezione della sua spirale interna obbedisce alle regola della sezione aurea, ed esprime il senso di una proporzione divina. La stessa secondo la quale anche il nostro corpo è costruito.
Il Nautilus vive a grandi profondità crescendo per lunghi anni mentre il mollusco si sposta di camera in camera nelle sezioni della conchiglia. La perfetta coabitazione tra mollusco e conchiglia, e tra la conchiglia e il suo ambiente, il mare, è regolata da sofisticati meccanismi che si basano su un equilibrio di sostanze ormonali e saline. Quantità infinitesimali di sostanze, orchestrate dalla sapienza della natura, formano la complessa realtà del Nautilus, e il segreto della sua longevità. Una medicina più sana, sostenibile e saggia saprà condurci a questa perfetta armonia?